Cremona – “Purtroppo la diffusione della PSA (Peste Suina Africana, ndr) sta registrando una preoccupante accelerazione: nei giorni scorsi è stata rinvenuta una carcassa di cinghiale infetta sul confine tra Piemonte ed Emilia Romagna, e questo non può che aumentare il timore circa il pericolo che la situazione sfugga di mano e investa un’area dove gli allevamenti suinicoli destinati alle produzioni Dop sono molto diffusi”.
Francesco Feliziani, Responsabile Laboratorio Referenze Nazionali Peste Suine presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Umbria e delle Marche, con sede a Perugia, non esita a evidenziare che a un anno dalla comparsa del primo caso di PSA nel nostro Paese la situazione, purtroppo, non è migliorata nonostante le strategie di contenimento adottate che evidentemente non si sono rivelate efficaci e soprattutto risolutive, “tant’è vero – aggiunge – che nel giro di un anno l’area interessata dall’infezione è più che raddoppiata e a questo punto parlare di un cambio di passo nelle azioni di contrasto alla malattia è quantomeno doveroso”.
“A livello internazionale la ricerca scientifica sta lavorando alacremente per arrivare quanto prima alla disponibilità di un vaccino contro la PSA – sottolinea Feliziani – ma allo stato attuale non disponiamo purtroppo di risultati immediatamente spendibili. A questo dobbiamo aggiungere la scarsa attenzione che negli ultimi tempi i media stanno riservando a questa emergenza, sottovalutandone la gravità e lasciando spesso più spazio a posizioni ideologiche che intendono difendere un presunto benessere dei cinghiali, lasciando in ombra le istanze del mondo produttivo che evidentemente hanno uno scarso appeal anche sull’opinione pubblica.
Questo è un grosso problema perché sarebbe necessario invece garantire un’informazione corretta che non demonizzi gli allevamenti intensivi, mettendo al contrario al centro dell’attenzione la priorità assoluta del mondo produttivo che è il benessere animale, rispetto al quale gli allevatori stanno indirizzando molte risorse anche sulla spinta di una normativa nazionale e comunitaria molto stringente.
Esiste poi il tema della biosicurezza che fa il paio con adeguate strategie vaccinali finalizzate a prevenire la diffusione in allevamento di malattie che possono compromettere la salute degli animali e di conseguenza la redditività degli allevatori. La biosicurezza – continua Feliziani – rappresenta un grande investimento non solo negli allevamenti intensivi ma anche in quelli estensivi e familiari: per ogni tipologia è infatti necessario utilizzare un approccio specifico perché diverso è il contesto in cui si opera. Una cosa però deve essere chiara: un adeguato intervento di biosicurezza non può riguardare il singolo allevamento ma deve integrarsi con il territorio e le diverse realtà produttive che lo circondano, solo così è possibile individuare i potenziali rischi per intervenire con una prevenzione adeguata ed efficace”.